Il tema dell’Hikikomori è un tema spinoso, come tutti quelli che trattano di disagio psichico e giovani. Quindi, nell’approntare il post mi sono chiesta: Vuoi tu Sonia, sposare cautamente l’imperante politically correct e restargli fedele per tutto il resto dell’articolo? Gridando NO, mi sono svegliata di soprassalto e ho scritto nell’unico modo in cui so farlo.
Iniziamo dunque col dire che l’Hikikomori è un termine giapponese che significa letteralmente “stare in disparte” ma con questo non si intende la triste storia dell’adolescente che fa da tappezzeria al ballo della scuola (mi piace suscitare dolci ricordi) quanto invece un ritiro volontario dall’intera società sentita come estranea e avversa. Il ragazzo si allontana gradatamente dalla vita sociale e dalla scuola per lunghi periodi (fino a diversi anni) rinchiudendosi nella propria camera da letto, senza aver nessun tipo di contatto diretto con il mondo esterno. E’ un fenomeno che riguarda principalmente i giovani tra i 14 e i 30 anni di sesso maschile, anche se il numero delle ragazze isolate è in forte crescita; ad oggi in Giappone (dove si sono manifestati i primi casi) ci sono oltre 500.000 Hikikomori.
Non si tratta però di una sindrome culturale esclusivamente giapponese, riguarda infatti, tutti i paesi economicamente sviluppati del mondo; nel bel paese possiamo vantarne circa centomila di casi. Questo volontario isolamento è stato imputato a diverse cause, ingenuamente e con approssimazione spesso viene sbandierata la dipendenza da internet come uno dei fattori scatenanti; questa in realtà è solo una delle conseguenze. Il giovane, infatti, che taglia i rapporti con il resto del mondo (spesso con i genitori costretti a lasciare il cibo davanti ad una porta chiusa; ma anche con la doccia, messa all’angolo dalla lucida logica del “se non esco che cazzo mi lavo a fare?”) non ha molto da fare se non guardare il soffitto e creare un intangibile mondo parallelo fatto di chat e protetto dalla tenue luce di un display.
Le cause individuate sono di diverso tipo e spesso s’intrecciano. In primis elementi caratteriali: si tratta di ragazzi intelligenti, sensibili e introversi che cozzano contro le pressioni di realizzazione imposte da una società altamente competitiva come quella occidentale. E poi la scuola, che in molti casi non si rivela essere una palestra di solidarietà; l’ambiente scolastico viene vissuto in modo particolarmente negativo (molte volte dietro l’isolamento si nasconde una storia di bullismo). Infine, come non citare la causa prima e ultima di ogni disagio: MAMMA’. La fatica di relazionarsi col figlio esplode in frustranti velleità genitoriali che li vorrebbero “diversi, vincenti, privi di debolezze”; tipico risulta l’assenza emotiva del padre e l’eccessivo attaccamento con la madre. Insomma, la vecchia storia dell’Edipo Re-cluso.
La prostrazione psichica dell’Hikikomori fa si che questi rifiuti gradualmente il contatto con ogni aspetto della società e ogni rapporto umano semplicemente perché il gap tra quello che percepisce come sue possibilità e quello che gli viene richiesto come imprescindibile ad uno svolgimento corretto della sua vita diventa un baratro invalicabile. Classiche domande come “E la scuola? E il lavoro ce l’hai? E la fidanzatina?” che già normalmente risultano gradevoli come un martellata sui denti sono da loro avvertite come la misura della propria conclamata inettitudine. E dunque l’incapacità di resistere alla pressione delle istanze esterne porta ad un crollo emotivo di questi soggetti che sviluppano sentimenti di impotenza, perdita di controllo e di fallimento. Fino al rifiuto e all’odio verso i portatori di tali aspettative. Questa resa, questa stanchezza sono dovute alla lotta impari sostenuta contro un mondo del quale non si condividono motivazioni, strumenti, attese e che spinge i ragazzi a chiudersi nella propria interiorità prima e nella propria camera poi. Un ritiro che potrebbe risultare anche benefico se si trattasse di una pausa di riflessione e costruzione onesta di una struttura interna, ma che purtroppo negli Hikikomori diventa un lungo isolamento che comporta l’avvento di patologie come l’agorafobia, il disturbo d’ansia e la fobia sociale.
Kazimierz Dabrowski, psichiatra polacco, ritiene che alla base dello sviluppo e della crescita personale vi sia un processo chiamato “disintegrazione positiva“, che porta l’individuo a mettere in discussione i propri istinti e le convenzioni sociali anche attraverso una breve fase di depressione esistenziale; un iter sano dovrebbe portare ad una rigenerazione e al riconoscimento oltre che all’accettazione delle proprie caratteristiche e ambizioni. Nel caso degli Hikikomori la fase di ricostruzione fallisce perché si cristallizza nel subdolo “comfort” dell’isolamento che smorza progressivamente ogni spinta vitale. E’ certo comprensibile come un mondo che ti grida SEI FUORI ad ogni inciampo, ad ogni impasse, ad ogni aspirazione non condivisa dalla massa è un mondo creato da automi per automi; ed è chiaramente una fucina di disadattati.
E qui, personalmente, azzarderei un “per fortuna”, credo infatti che non adattarsi resti l’unica possibilità di salvezza per restare umani; gli Hikikomori sono un aspetto estremo di quel rifiuto e della ribellione a regole ingiuste e incomprensibili che ogni giorno ci vengono imposte. Ma chi di noi intimamente non condivide le istanze che spingono questi adolescenti a porre un muro davanti alla richiesta assurda che ci vorrebbe “sempre al top, distaccati, imbattibili, DAICAZZO!”.
Mi piace sottolineare in chiusura come non ci sia poi niente di nuovo sotto al sole, la pratica del ritiro dal mondo arriva da epoche lontane, ad esempio nell’alto medioevo in medio-oriente era tutto un proliferare di monaci anacoreti che campavano assisi su colonne abbandonate. Gli antichi “Stiliti” mostrandosi pubblicamente e facendosi scudo con la loro fede erano socialmente accettati, al contrario i moderni Hikikomori si ritraggono allo sguardo e privi di ogni protezione ripiegano su una corazza esterna: il buio di una camera. Ma forse un Hikikomori potrebbe riconoscere come sua vera antenata la poetessa americana Emily Dickinson che a metà dell’Ottocento decise di trascorrere quasi tutta la sua vita come un’ombra nella sua casa di Ahmerst, intrattenendo corrispondenze, incontrando pochissime persone, scrivendo quasi 1800 poesie (ritrovate alla sua morte in un baule della sua camera da letto) e tutto questo, senza mai uscire.
Ha una sua solitudine lo spazio,
solitudine il mare
e solitudine la morte, eppure
tutte queste son folla
in confronto a quel punto più profondo,
segretezza polare,
che è un’anima al cospetto di se stessa:
infinità finita.
Poesia n°1695, E. Dickinson
Resta aggiornato sugli ultimi articoli scritti Clicca qui per seguire il Blog su Telegram Clicca qui per seguire il blog su Twitter