Ho avuto la fortuna di nascere negli anni ’70, la mia crescita è andata di pari passo con quella del mondo dei videogiochi. Nell’arco di 40 anni si sono trasformati da fenomeno per “ragazzini nerd” a fenomeno di massa. Da produzioni semplici ed economiche composte da pochi bit e pixel a produzioni degne di un colossal di Hollywood.
Oggi mi diverte, quando bazzico i siti specializzati, a leggere i commenti dei ragazzini che parlano di fps (frame per secondo), teraflop (boh!?!), di risoluzioni grafiche varie ed eventuali. Ai miei tempi era già tanto riconoscere animali e cose disegnate in quella che oggi viene definita pixel art.
Durante la mia adolescenza ho giocato centinaia di videogiochi e alcuni, vuoi per la trama, vuoi per l’idea geniale che c’era dietro, non li dimenticherò mai.
Oggi quindi condividerò con voi una mia personalissima classifica, un po’ nostalgica, dei videogame che più ho amato e che più hanno segnato la mia infanzia e adolescenza:
Prince of Persia – 1989
Prince of Persia segnò la svolta per i platform game, si avvaleva della tecnica del rotoscopio per la realizzazioni delle animazioni, l’effetto finale era un protagonista che si muoveva, per la prima volta in un videogioco, in modo molto naturale, umano direi.
Ambientato nel medioevo persiano, il protagonista, imprigionato dal visir Jaffar nella parte più bassa del palazzo, doveva farsi strada tra trappole, guardie e ombre per salvare la principessa.
Una caratteristica particolare di questo platform era la durata. Il vsir aveva dato alla principessa un ultimatum: decidere entro un’ora di sposarlo o sarebbe stata uccisa. Il gioco quindi era in tempo reale e un’ora era il tempo massimo entro cui concluderlo.
The Secret of Monkey Island – 1990
Per le avventura grafiche la scelta è ardua perché io inserirei tutte quelle della LucasArts: Zak McKracken (1988), Indiana Jones e l’ultima crociata (1989)
Monkey Island segna però la svolta. Umorismo geniale, rompicapo assurdi, situazioni surreali rendono questo videogioco una vera e propria pietra miliare. Averlo giocato, e terminato, mi regala ancora oggi qualche sorriso. Come dimenticare i combattimenti a suon di offese tipo “Io sono la gomma e tu la colla”?
Il protagonista è Guybrush Threepwood, un giovane il cui unico sogno nel cassetto è di diventare un pirata. L’avventura inizia sull’isola Mêlée Island, Guybrush si reca in un pub al cospetto di tre “pirati dall’aspetto importante” che gli affideranno 3 prove:
– Sconfiggere in un duello ad insulti Carla, il maestro di spada dell’isola;
– Rubare l’idolo dalle molte mani dalla villa della governatrice Elaine Marley;
– Trovare un tesoro nascosto
Una volta superate, Guybrush sarà promosso “Pirata”.
L’avventura era punta e clicca. C’erano degli oggetti in ogni schermata con cui si doveva interagire, combinarli oppure conservarli e usarli al momento opportuno. Una genialata che regalava ore e ore di puro intrattenimento.
Another World – 1991
Come per Prince of Persia, anche in questo caso assistiamo allo sviluppo di un videogioco che si avvale della tecnica del rotoscopio. Il risultato finale è superbo, un mondo che si muove come se fosse reale. Questa volta però a farla da padrona non è solo l’animazione ma anche la trama.
Il genio della fisica Lester Knight Chaykin, in procinto di effettuare un esperimento nel suo acceleratore di particelle, viene sorpreso da un temporale che genera un buco nero e lo spedisce in un mondo alieno ed ostile. Verrà catturato e spedito in una prigione sotterranea dove conoscerà un alieno, anch’egli imprigionato, che chiamerà Buddy. Diventati amici, i 2 riusciranno a ritrovare la libertà in quello che è il nuovo mondo in cui Lester dovrà vivere per sempre.
Wolfenstein 3D – 1992
Call of Duty, Battlefield, Overwatch e simili, oggi nemmeno esisterebbero se nel 1992 quelli della iD Software non lo avessero creato. È il capostipite degli sparatutto in prima persona (per intenderci di tutti quei videogiochi in cui al centro dello schermo si vedono solo le mani che impugnano un’arma).
Ore e ore di divertimento contenute in un singolo floppy disk da 1,44 mega, alla faccia dei 50 giga di Modern Warfare.
La storia è molto semplice: Seconda Guerra Mondiale, nei panni di William “B.J.” Joseph Blazkowicz, inizialmente armato solo di un coltello, dovremo fuggire dal Castello di Wolfenstein attraverso infiniti corridoi e passaggi segreti. La fuga è ardua perché il protagonista sarò costantemente sotto attacco di SS, pastori tedeschi, guardie armate fino ai denti, mostri e mutanti generati dagli esperimenti dei nazisti. Ancora oggi, se mi concentro, mi rimbomba nella testa le urla “Acthung!”
Mortal Kombat – 1992
Ero in vacanza a Malta quando vidi per la prima volta questo cabinato. La tentazione di farci una partita era troppo forte, per la prima volta non c’erano disegni come protagonisti di un videogioco ma personaggi digitalizzati. Era tutto così reale, ciò che lo caratterizzava era la violenza inaudita mai vista prima di allora, litri di sangue in stile Quentin Tarantino. E cosa dire delle fatality?
Certo, il genere picchiaduro era già affollato e mortal kombat non aveva inventato un nuovo genere. I primi erano stati Heavyweight Champ (1976) e Warrior (1979). Il re incontrastato sul mercato però era stato di sicuro Street Fighter nel 1987, ma Mortal Kombat, per quanto mi riguarda, mi aveva stregato. Chiedere in giro quale dei due piacesse di più era un po’ come chiedere: “Vuoi più bene a mamma o a papà?”, “Preferisci i Duran Duran o gli a-ha?”
Ancora oggi, quando ho tempo, mi diverto a fare qualche partita con la mia Playstation. Non ho più lo stesso feeling con i giochi di oggi. Li trovo poveri di idee e pompati con gli anabolizzanti. Tutta apparenza e poca sostanza. Dal boomer è tutto, a voi la linea.